I CONIGLI DI VALGUARNERA

copertinagreggio    Quando si debutta e si hanno vent’anni non si guarda il pelo nell’uovo, non si è sofisticati e attenti come quando arriva il successo e ogni scelta diventa determinante per il proprio futuro.

Non si vede l’ora di trovare occasioni di esibizione, per allenarsi, per cimentarsi, per campare senza i contributi dei genitori che sono già abbastanza disperati per la tua scelta.

Era il 1974 e alcuni impresari amici, Paolo Ronchi e Isidoro Saitta di Milano in collaborazione con il mio agente Mimmo Spera, ebbero la splendida idea di organizzare, attraverso un impresario locale, una tournée in Sicilia.

Lo show era costituito da me, debuttante sconosciutissimo, e da Riccardo Fogli che si era staccato dal gruppo musicale dei Pooh.

Io avrei fatto la prima parte intrattenendo il pubblico col cabaret, poi Fogli con le sue canzoni sarebbe stato l’at­trazione forte della serata.

Fin qui tutto bene.

Ma come si può sperare di far pubblico in Sicilia con un cantante che oltre che bravo è un bell’uomo e quindi piace alle ragazzine, quando il novanta per cento delle ragazzi­ne nelle città dove ci esibivamo la sera non poteva uscire di casa?

E se un dieci per cento usciva aveva il padre e tre fratelli al seguito a mo’ di guardie del corpo.

Se poi di quel dieci per cento qualcuna riusciva ad arri­vare di fronte al teatro dove ci saremmo esibiti, non appe­na i parenti vedevano i prezzi che l’organizzatore sbatteva in bacheca le poverelle tornavano immediatamente ad au­mentare la percentuale di quelle barricate in casa.

Piscitello, l’organizzatore siciliano che assomigliava va­gamente al cantante Drupi, divenne subito famoso per non azzeccarne una.

All’arrivo mio e di Ronchi, si presentò all’aeroporto con una Fiat 127 gialla tamarro.

Anzi forse in origine era una 128, ma tante e tali erano le ammaccature da farla somigliare più a una 127.

Il viaggio di avvicinamento a Valguarnera, dove lui ci avrebbe ospitato, fu un inferno: la 127 oltre che a benzina andava a olio e acqua.

Ogni venti chilometri Piscitello si fermava, metteva cin­quemila lire di benzina, dieci litri d’acqua e un paio d’olio.

Giunti a Valguarnera, scoprimmo che non esisteva al­cun hotel per me e Ronchi, bensì eravamo ospiti a casa di Piscitello.

La sua famiglia era disperata, consideravano quel figlio uno scavezzacollo, uno che avendo vissuto un po’ a Mila­no si era montato la testa.

Il padre, una persona semplice, ci trattò come parenti stretti e ci diede la stanza più bella.

La madre e la sorella ci viziarono con piatti tipici della cucina tradizionale siciliana.

Il cognato, muratore dotato di un buon senso dell’iro­nia, piangeva.

Ci conquistarono e noi loro, insomma nacque una sorta di complicità per far sì che “Piscitello figlio” non facesse diventare quella sua aspirazione a organizzare spettacoli, e quella tournée in particolare, la tomba delle sudate finanze di famiglia.

L’impresa, nonostante la nostra cooperazione e la buona volontà, si presentò però quanto mai ardua.

Le piazze e i teatri erano frutto di un’accurata ricerca co­sì suicida da far invidia a Kevorkian, il dottor morte.

   Teatri fatiscenti, piazze in cui l’unica festa annuale era quella del paese ed era gratis, discoteche sull’orlo del fallimento che non avendo pubblico avrebbero accettato an­che lo striptease di un fagiano.

Ricordo che anche Fogli capì subito l’aria che tirava ma ormai era lì, doveva provare il suo spettacolo che poi avrebbe portato in giro per la penisola.

Accettò amichevolmente il rischio di lavorare senza ve­dere una lira, anzi rimettendoci del suo.

Piscitello veniva travolto dagli eventi di giorno in gior­no, di ora in ora, conscio unicamente di non avere la mini­ma idea di cosa stesse facendo.

“Ma chi te l’ha fatto fare di organizzare una tournée?” gli chiedevamo vedendo le pecche organizzative.

“Sento che questo è il mio mestiere, sono stufo di fare il cameriere in Germania.”

“Ma se domani debuttiamo e non hai ancora attaccato i manifesti!”

Quella dei manifesti era una sua dimenticanza ricorren­te, organizzava gli spettacoli e non si ricordava di far af­figgere i manifesti.

Talvolta li aveva consegnati agli attacchini che però, non avendo ricevuto neanche un acconto, li buttavano nella spazzatura.

Il pubblico sarebbe dovuto accorrere come per incanto, trascinato dal vento o da una stella cometa.

In quello sbandamento generale accadde finalmente, la notte precedente il debutto e tutte le notti successive quando sulle strade di campagna rientravamo verso casa, qualcosa che ci fece capire con esattezza qual era il seme della follia che attanagliava Piscitello: erano i conigli selvatici.

Come colto da un raptus improvviso, mentre con la fa­mosa 127 a triplo consumo affrontava i tornanti verso Vai­guarnera, non appena vedeva un coniglio selvatico attra­versargli la strada gli si lanciava contro con l’auto.

   Io e Ronchi, irrigiditi dentro l’automobile ad arti spalan­cati come l’uomo delle tavole di Leonardo da Vinci, tenta­vamo inutilmente di dissuaderlo invitandolo alla calma.

Lanciando improperi e bestemmie sicule contro il pove­ro coniglio saltellante, Piscitello zigzagava paurosamente, faceva stridere la tela dei pneumatici ormai senza gomma sull’asfalto, sobbalzava sul ciglio irto di buche e sassi fin­ché immancabilmente andava a sbattere contro un albero o il costone del colle o un grosso sasso.

“Ma porca eva cosa ti prende, ma sei scemo?” gli chie­devamo.

“Minchia, io quel coniglio lo devo prendere.”

“Ma cosa ti ha fatto, che ti frega di quel coniglio, qui ci ammazziamo giù dal burrone per colpa di ‘sta stronzata, scusa.

“Non capite. La soddisfazione di arrivare a casa e sbat­tere sul tavolo un bel coniglio selvatico che poi ci mangia­mo, ma vi rendete conto?”

Già mi vedo la faccia di soddisfazione di mio padre... mia madre che lo cucina.., tutta la famiglia che fa festa al coniglio.”

Guardavo Ronchi seduto sul sedile posteriore, aveva lo sguardo fisso sulla nuca di Piscitello che a sua volta, con la testa appoggiata alle mani ben salde in alto sul volante, guardava diritto di fronte a sé quel panorama dove piccoli paesi all’orizzonte si perdevano nel buio del cielo.

Proprio come le nostre speranze di tornare a casa coi soldi del contratto e con le ossa ancora intere.

 

Ezio Greggio, “Presto che é tardi. Un libro veloce veloce da leccarsi le orecchie”, Milano, 1995

 

 


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