Non so cosa ospiti oggi quel luogo che un tempo era l’istituto Sacro Cuore. Quando vi entrai per la prima volta, nei primi anni ’50, all’età di circa tre anni, era abitato dalle suore canossiane che, fra le altre cose, gestivano un asilo.
Mi ritrovai “consegnata” a madre Adele e madre Graziella. Un pianto inconsolabile accompagnò il distacco da mia madre che pensava di offrirmi il meglio per la mia educazione. La gentilezza di madre Adele faceva a pugni con la durezza di madre Graziella che, di tanto in tanto, mi prometteva di tagliarmi la lingua per le mie “risposte” a ordini e divieti, evidentemente non condivisi. Un giorno finii perfino chiusa nello sgabuzzino assieme alle scope…
Visto che ci dovevo rimanere, cercai di scoprirne il lato positivo. E c’era: Una gabbia di conigli in terrazza dove ci portavano a giocare ( credo che i frequentanti l’asilo fossimo meno di una decina). Io abbandonavo i giochi per osservare i conigli che brucavano le verdure penzolanti fra le maglie di una gabbia.
Ah i ripetitivi “giochi” di costruzioni con i dadi di legno colorati… Non sapevo più che altro costruire e mi annoiavo a morte. Meno male che nella parete dell’aula spiccava l’immagine di un grande angelo cui rivolgevo le mie preghiere per essere liberata da quell’inferno. Di soppiatto cercavo di allontanarmi, attratta dalla musica proveniente da un pianoforte o dal bisbigliare delle ricamatrici che in un grande stanzone stavano curve davanti ad enormi telai.
Com’era triste il momento in cui si “doveva dormire”: Eravamo costretti ad incrociare le braccia sui piccoli tavoli e appoggiarvi la testa. Un martirio. Io, di tanto in tanto, sollevavo il capo e sbirciavo madre Graziella che faceva la guardia. Com’era buffa con quella cuffietta nera sormontata da una specie di cresta ondulata! Erano vestite tutte allo stesso modo, d’altronde. Del loro corpo si potevano scorgere l’ovale del viso e le mani; il resto era abbondantemente coperto con abiti informi di colore nero e marrone.
Quando venivo scoperta con la testa lievemente sollevata,venivo costretta a baciare, per punizione, il grande medaglione che Madre Graziella portava al collo. “Benedetto Gesù e Maria” dovevo ripetere mentre le mie labbra toccavano, da un lato l’immagine di una suora vestita come loro (scoprii, in seguito, essere la loro fondatrice Maddalena di Canossa), e dall’altro l’immagine del Sacro Cuore di Gesù.
Un giorno, non so come, riuscii a scendere le scale; pensavo di poter aprire il portone e…fuggire. Madre Maria, una suora mite dal viso rubicondo che stava sempre accanto al portone, mi fermò e mi fece guardare i fiori che lei confezionava con fil di ferro, carta stagnola dei cioccolatini, carta velina colorata. Per quel giorno decisi di non scappare; sarei rimasta accanto a madre Maria e ai suoi fiori variopinti.
A SCIUMAREDDA
Com’era lontana, negli anni ’50 “a Sciumaredda” per chi,come me, abitava nei pressi “du Castjdd” … SI ANDAVA A PIEDI, meta di una escursione per “prendere aria di campagna” o destinazione delle passeggiate scolastiche.
Che fatica arrivarvi! La magia del luogo, però, stemperava l’affanno e il fiatone. Il fruscio sommesso di un ruscello che si era già percepito in lontananza, si fondeva-confondeva con lo stormire delle fronde, trasformandosi in musica eterna.
Gli alberi di “murtidda”, come giganti svettanti verso il cielo , si pavoneggiavano mostrando il loro carico enorme di foglie e fiori che sembravano tintinnare alla carezza di una perenne brezza. Mani si tendevano verso quelle foglie (o fiori?) di colore bianco-argenteo per raccoglierle e metterle in bocca. “A murtidda s mangia”… Un coro di voci compagne faceva eco alla mia muta perplessità. Riluttante ne assaggiai qualcuna… Non aveva un gusto straordinario, ma ne conservo ancora il sapore.
DONNA SANTINA
Non avevo ancora compiuto cinque anni quando mia madre, avendo finalmente capito che l’asilo presso le suore canossiane non era per me il luogo ideale e che “avevo bisogno di impegnarmi di più”, mi dirottò verso la scuola elementare. La maestra Maria Crea vedova Sgroi mi accolse in prima classe come “ascoltante”. Come mi sentii grande ed importante! Finalmente seduta ad un banco dove si scriveva e si leggeva…
Non avevo ancora compiuto cinque anni quando mia madre, avendo finalmente capito che l’asilo presso le suore canossiane non era per me il luogo ideale e che “avevo bisogno di impegnarmi di più”, mi dirottò verso la scuola elementare. La maestra Maria Crea vedova Sgroi mi accolse in prima classe come “ascoltante”. Come mi sentii grande ed importante! Finalmente seduta ad un banco dove si scriveva e si leggeva…
Lei, donna Santina, arrivava in aula con passi felpati; impercettibile il suo bussare alla porta, automatico il suo apparire. Indossava un grembiule di raso nero identico a quello indossato da noi alunne. Con la mano destra reggeva una specie di grande innaffiatoio, nella sinistra stringeva uno straccio cosi pieno di macchie da non poterne percepire il colore di fondo. Si avvicinava ad ogni banco, incominciando dall’ultima fila, e ritualmente ripeteva a quelli seduti davanti: ”canziàt’v”. Lei versava un po’ del contenuto del suo innaffiatoio dentro i piccoli contenitori di vetro incastonati nei banchi e, con mossa rapida, ne asciugava il contorno con lo straccio.
L’ingresso di donna Santina interrompeva la lezione,l’interrogazione…Tutto si fermava. Banco dopo banco si vedeva il movimento delle nostre schiene che, come spighe mosse dalla brezza, oscillavano al suo invito di spostarci. Il liquido nero fluiva veloce nei contenitori e alla fine del “rito” tutte eravamo più contente: Avremmo potuto intingere i nostri pennini nel calamaio colmo d’inchiostro,scrivere più scorrevolmente, asciugare la pagina con la “cartasciuga”, fare le debite macchie…
Lo potei osservare per poco tempo questo rituale; già in terza elementare donna Santina non venne più a riempire con l’inchiostro i calamai. Non era più necessario . L’avvento della penna a sfera li rese inutili. Essi rimasero, però, lì al loro posto, con i residui secchi d’inchiostro, a ricordarci ancora per tanto tempo quanto fosse stato difficile ma meraviglioso, scrivere con il pennino infilato nella sua asticciola di legno colorata, come un piccolo vomere nell’aratro; quanto ti balzasse il cuore ad ogni macchia che imbrattava la pagina e che dovevi precipitosamente asciugare con la carta assorbente.
Mariella Viavattene
Bagheria 16/11/2012