La montagna di Rossomanno ha esercitato sempre un grande fascino su di noi sin da quando ragazzi ci andavamo in gita col parroco Magno: il fascino dell’antichità. Sapevamo che c’erano i resti di una cittadina greca, di un castello e di un convento, e Michelino ed io decidemmo di farli conoscere al cugino Mariano che veniva da Palermo. Un giorno di agosto partimmo, ma nel pomeriggio, per non interrompere il lavoro delle lezioni: avremmo provato l’emozione di una gita notturna approfittando della luna piena. Portammo con noi una corda e grosse canne come bastoni per aprirci la strada tra sterpi e rovi e spaventare i serpenti. Benché strada da fare, a piedi, ce ne fosse molta, noi l’allungammo deviando verso Grottascura per vedere una cascata d’acqua che aveva scavato delle grotte con stalattiti di cui una sola era raggiungibile arrampicandosi sulla parete di quella vasca naturale che la cascata alimentava. Questa deviazione ci prese più tempo del previsto anche perché nella valle la vegetazione era fitta e ci aprivamo a fatica la strada nella boscaglia di rovi. Usciti dalla valle ci incamminammo lungo il fianco della montagna puntando su uno spigolo dell’antico castello che si erge su uno sperone del monte e domina superbo.
Varcammo i resti della vecchia cinta muraria e per raggiungere la torre dovemmo aggirare lo strapiombo su cui si innalza. L’impresa cominciava ad essere pericolosa; ma noi non ci rendevamo conto delle insidie che può nascondere l’accesso a un castello; noi eravamo presi dai ricordi storici e letterari; ci avevano detto che quello era il castello degli Uberti, cacciati da Firenze e ospitati dai re svevi. Come non pensare a Farinata che “si ergea col petto e con la fronte” tanto fieramente da mettere in soggezione Dante? Per vera fortuna evitammo il pozzo, nascosto dall’erbaccia, che si apriva sull’unica stanza accessibile del castello, dove a stento mio fratello ed io trovammo tra i tanti nomi incisi sull’intonaco i nostri, lasciati tanti anni prima.
Il sole stava per tramontare e dovemmo affrettarci per arrivare al convento, attraversando le rovine di quella che era stata forse la Macella di cui parla Polibio, che fu distrutta dai soldati del console Marcello durante l’assedio di Siracusa. Quelle pietre informi, sparse sul crinale del monte lungo una strada fiancheggiata da tombe distrutte da tempo immemorabile, corrose dalla pioggia e dal vento dei millenni, esaltarono la nostra fantasia. Chissà se passò di qui Saffo esule da Mitilene o Pindaro chiamato alla corte di Agrigento, o Eschilo che si recava a Gela, o forse Platone in uno dei viaggi che fece in Sicilia per realizzare la sua utopia?
Giungemmo al «Conventaccio» che era già sera: al lume della luna vedemmo la chiesa semidistrutta con resti di decorazione sull’abside, e il pavimento sconvolto con ossame umano tra i calcinacci; lungo un corridoio vedemmo i muri delle celle dei monaci. Da una di esse uscirono all’improvviso degli uccellacci neri spaventati. Quel luogo, che sembrava uscito dalla fantasia dei romantici, ci mise addosso una certa inquietudine; non scherzavamo più.
Verso la valle gridammo i nostri nomi e provocammo degli echi che si ripeterono più volte; era l’effetto della parete del monte che aveva varie cavità semicircolari a forma di teatro. Quell’eco ripetuta ci lasciò sgomenti e muti e istintivamente prendemmo la via del ritorno. Per il turbamento che ognuno di noi cercava di nascondere deviammo inavvertitamente dal sentiero, del resto poco distinguibile al lume della luna, quando ad un tratto una voce forte e cavernosa da dietro una siepe ci ordinò di fermarci e di gettare quelle che sembravano armi. Ed ecco uscire dall’ombra un vecchio barbuto con gli occhi di fuoco e un fucile spianato contro di noi. Ci credeva dei ladri notturni o briganti e voleva ucciderci; ce ne volle per convincerlo che eravamo degli studenti in gita archeologica. Non so quale Santo ci salvò dalle sue fucilate.
Quasi fuggendo raggiungemmo la casa tremanti di paura: eravamo convinti che quello non era un vecchio reso selvaggio dalla solitudine; era lo spirito della montagna che avevamo profanato nel riposo sacro della notte.