UNO SCHERZO

         La grande guerra era finita, i soldati che non erano ca­duti al fronte erano tornati; ma al paese non si vede­vano compensi ai sacrifici sostenuti, se si esclude una ma­gra soddisfazione per la vittoria conseguita, insieme con la commozione quando la banda intonava l’inno del Pia­ve. Nulla era cambiato; la situazione economica si era fat­ta più pesante; si stentava a trovare lavoro e si ripresentavano i problemi di ogni giorno, che erano per i più quel­li della sopravvivenza. L’economia italiana subiva le con­seguenze delle enormi perdite di ricchezza e di sangue che era costato l’immane conflitto e non si sarebbe sollevata per molti decenni a venire. Anche al paese l’attenzione del­la gente era dirottata su questioni di ordine territoriale, di diritti negati e di prestigio internazionale; ma ingiustizie so­ciali, privilegi e soprusi permanevano e preparavano il ter­reno per l’avventura fascista. Eppure l’euforia della pace si era diffusa dappertutto; la vita prendeva il sopravvento e la gente ignara del futuro tornava a respirare e a sorridere. 

          I miei genitori animavano frequenti riunioni tra paren­ti e amici con la musica e col canto. Nella loro casa, ma più ancora in quella dello zio Gaetano, che possedeva un grammofono (cosa rarissima) si facevano serate musicali in cui si ballava e si cantava e si dimenticavano preoccu­pazioni e affanni. Intervenivano bravi suonatori di man­dolino come lo zio Cristofero e più ancora lo zio Filippeddu che aveva insegnato a suonare lo strumento anche a mia madre; venivano anche vari suonatori di chitarra che si af­fiancavano a mio padre.

          Don Umberto Longo, giovane prete alto e aitante con una bella voce di tenore, era vicino di casa e sentiva gli echi di quell’allegria. Aveva una sorella afflitta da crisi depressiva, da quando il suo fidanzato era stato dato per di­sperso in guerra, e faceva temere che potesse smarrire il senno. Perciò il fratello faceva di tutto per distrarla e spes­so chiedeva a mia madre di invitarla a partecipare a quel­le serate; ma inutilmente: non riusciva a strapparla dalla casa e dalla malinconia. Finché una sera si decise ad ac­compagnarla lui e, per invogliarla a deporre il velo della tristezza, si mise a ballare anche lui. Mia madre per farla sorridere pensò ad uno scherzo. Si mise segretamente d’ac­cordo con suo fratello, lo zio Luigino, che si prestò subito al gioco. Don Umberto aveva lasciato appesi presso la por­ta mantello e cappello; lo zio, senza farsene accorgere, li prese e uscì dalla stanza. Proprio nel bel mezzo della festa, mentre il prete ballava e cantava col suo vocione, si sentirono dei colpi secchi alla porta. Mia madre andò ad aprire e disse a voce alta: - Mi benedica, reverendo parroco! E subito apparve chiuso nel mantello e nascosto dal cappello lo zio che assomigliava nella statura al parroco Magno, severo moralista, già segretario particolare del Vescovo e suo vicario al paese.

            A quella apparizione inattesa si fece silenzio e tutti smi­sero di ballare; anche don Umberto vide, ebbe un tuffo al cuore e rimase di ghiaccio. Come avrebbe giustificato la sua presenza lì, tra ragazze e signore, in mezzo a una festa di danze e canti mondani?

            Ma quando lo zio si tolse il cappello e mia madre scop­piò a ridere, egli ebbe la forza di dire: — Che vi mangino i cani! e andò ad accasciarsi su una sedia, visibilmente di­strutto.

            Mia madre fu quasi pentita per questa reazione impre­vista e si rasserenò solo quando anche il prete fu travolto dalla risata generale, su cui risuonava alta la sua voce.

 

 

Luigi Lamartina, “Voglia di raccontare”, Catania, 1991

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