Io sono un primogenito, quello, per farmi capire, che per ogni altro figlio che nasce dopo e si frappone tra lui e la madre, ne allunga la distanza a dismisura. Tra me e mia madre vi furono altri nove figli dunque è facile immaginare che ognuno, alla nascita, mi portava un messaggio inequivocabile: “fatti più in là”. La distanza tra noi due mi fa venire il sospetto che ella, umanamente parlando, mi abbia alla fine perso di vista.
Chi invece non mi perdeva di vista neanche per un giorno, era mio padre. Egli dedicando ogni sforzo alla mia educazione intendeva fare di me il capofila che simile ad un legame con la cordicella, mi sarei portato appresso tutti gli altri; metafora di colui che facendo da rompighiaccio, apre il varco a chi arriva dopo. Insomma il primogenito ha sempre la crescita accelerata e brucia le tappe più velocemente dei secondogeniti, terzi, quarti e via dicendo. Io servendo da esempio, avrei esonerato dal ripetere la fatica per educare gli altri nove. Purtroppo aveva fatto i conti senza l’oste o se vogliamo, non tutte le ciambelle… Le sue speranze naufragarono dal mio primo giorno di scuola fino al culmine sfociato nella “grande fuga”. La terza, perché la prima e la seconda la vinse lui.
Il suo sogno di padre era il figlio a scuola: voleva il suo primogenito geometra e, stando a Carrapip, automaticamente “ingegnere”. Con l’esempio che sarebbe venuto da me, i restanti nove avrebbero fatto della nostra famiglia, la famiglia record con il più alto numero di diplomati. Quanto onore! Invece il diavolo, che fa pentole senza coperchi, volle che io cominciassi a scappare dalla scuola, come da un sanatorio di infettati, già dalla terza classe e avrei cominciato prima se non mi fossi sentito impreparato. Fuggivo di tanto in tanto, nella vaga speranza di trasmettere in diretta il messaggio senza che fossi costretto a tradurlo in parole. Venivo rintracciato, castigato sempre più severamente ma il mio dissenso non veniva recepito.
A via d uai, finirono le elementari, a via di raccomandazioni mio padre mi mandò alle medie (sfortunatamente non vi era più l’obbligo degli esami di ammissione e questo ritardò di qualche anno la risoluzione del problema) dove le mie fughe si fecero più assidue per non dire giornaliere. Arrivavo davanti all’ingresso della scuola e una forza irresistibile mi impediva di entrare. Eppure il terrore di ciò che mi aspettava una volta tornato a casa, lo ricordo come tutto il male che un bambino possa soffrire. Nonostante la mia consapevolezza, mi lasciavo andare, e alla mia ribellione, e ai compagni che avevano la stessa posizione. Così tra quello che mi aspettava dentro, una noia e un’immobilità mortale, e quello che mi aspettava fuori, botte a non finire, preferivo queste ultime almeno precedute da tre/quattro ore di completa spensieratezza.
Non era difficile avere “compagni di merende”, e la giornata trascorreva felice lontano dall’abitato a rubare frutta per il piacere impagabile di dare più gusto alla nostra trasgressione. Ma quando il paese è piccolo e la gente mormora, c’è sempre un vicino del vicino, un amico dell’amico, un parente del parente che intravedeva e andava a riportare. Raccontava tutto a mio padre il quale, scrupoloso verso colui che aveva fatto il proprio dovere, gli dimostrava di saper educare i figli. Come? A bastonate e cinghiate. Tutti i padri di allora, per drizzare il legno storto, ricorrevano a quei mezzi e lui si adeguava. Non era né meglio né peggio di tanti padri dell’epoca.
Giunta la rassegnazione per la scuola, la guerra tra me e lui continuò anche quando mi
mandò a lavorare (voglio precisare che io amavo ed amo tuttora il lavoro) dove capitava. Nel mio curriculum vitae appare nell’ordine: garzone dai pecorai come inizio, (doveva essere umiliante il più possibile) e dai Giarrizzo, ai mercati generali dopo; fontaniere, ambulante di stoffe con uno del mestiere, poi fruttivendolo con uno che aveva l’ape ma non sapeva guidare e perciò guidavo io anche se non avevo la patente, e ancora fabbro da Sgroi, e infine, dulcis in fundo, dai fratelli capomastri Rotondo. Lavoro di carico e scarico di cardarelle di cemento, blocchetti su e giù per le impalcature e alla sera tornavo a casa con la spalla sanguinante. Quello dell’ambulante lo ricordo come il più remunerativo e divertente. Giravamo mezza Sicilia e il lavoro non era per niente faticoso.
Tutti questi tentativi per mio padre dovevano essere una punizione per la mia indisciplina, ma nel frattempo lui andava a incassare, sempre allo scopo educativo/punitivo, la mia paghetta senza lasciare a me neanche gli spiccioli. Vestiti e scarpe col contagocce perché c’erano le figlie femmine che crescevano e avevano la precedenza. Tutto come se fosse fatto per esasperarmi.
Una sera, con uno dei miei compagni di ventura che viveva la stessa situazione, decidemmo di porre fine alla faccenda… Eravamo fuori di casa da due giorni. Avevamo dormito (tanto per dire) nel magazzino dei Giarrizzo a loro insaputa, dopo una giornata di lavoricchio. Fingendo di sistemare la merce, ci eravamo dilungati fino a che i titolari se n’erano andati. Noi quella notte dovevamo pianificare nei dettagli la fuga che ci avrebbe cambiato la vita.
Il giorno dopo, alle cinque del mattino, a bordo delle nostre biciclette ci allontanammo fino a Catania. Il progetto era di raggiungere un convento a Siracusa dove un parente del mio amico faceva il frate. Lì avremo chiesto asilo e magari un lavoro qualsiasi (non avevamo pretese). Volevamo solo stare alla larga dalle botte e dalle violenze e se da cosa nasce cosa potevamo trovare un futuro in quella città.
Giunti, dopo una pedalata massacrante (la strada era più sterrata che asfaltata) di ore
interminabili, a Catania, oltre ad essere assaliti dalla stanchezza, ci si mise anche l’imbrunire che cominciava ad avanzare con lo spettro della notte e noi ancora o munn munn. Scoraggiati, pentiti ma non troppo come si vedrà, andammo alla stazione dei pullman, rintracciammo fortunatamente quello che andava a Valguarnera e l’autista, riconoscendoci, ci lasciò viaggiare gratis. Le bici (avanzi di pezzi raccattati e assemblati) furono abbandonate.
Andai da mio zio e tra parole e sottomissioni ripresi il mio calvario, fino ai sedici anni, quando tra qualche spicciolo guadagnato alla domenica (solo in quello avevo diritto) e il salvadanaio rotto di mia madre, comprai un biglietto e salii sul treno Dittaino-Catania-Torino. Prezzo ottomila lire. Appena sceso dal treno fui accolto da quattro carabinieri: “ lei è …?” “Sì” “Venga in caserma”. Rimasi nell’ufficio della polizia ferroviaria di Torino, (dove fui trattato con molta cortesia, (strano per essere dei poliziotti!) fino alla partenza del medesimo treno per Catania, cioè la stessa sera, con una raccomandazione chiara e decisa: “Lei è minorenne e sarà controllato ad ogni fermata del treno. Se tentasse di scappare non avrà tempo di attraversare neanche l’androne della stazione, perché noi lo riprenderemo”. “ Va bene”. Promessa mantenuta. Almeno per il momento.
Non andai a casa mia, sarebbe stato come il pesce che va incontro all’esca, perciò mi rifugiai da mia sorella di qualche anno meno di me che però si era già trovata il marito. Era stato mio cognato, infatti, a mandarmi da un suo amico torinese, conosciuto durante il militare, e fu lui a confessarlo in famiglia quando scattò l’allarme per la mia scomparsa. Mia sorella mi ospitò per qualche giorno, quanto bastava per far passare le furie a mio padre, il quale prendendomi con le buone mi fece innalzare un piano della casa per fare una camera in più. Con dieci figli e due genitori paterni, in casa eravamo in quattordici. Altro che un piano e una camera! Ci sarebbe voluto un grattacielo per avere le comodità di adesso.
Mia madre, forse quella che meglio di chiunque poteva rappresentare le donne “brazza di mare”, lavava e cucinava ininterrottamente. Ricordo le pentole, le casseruole e le padelle con dimensioni che dopo avrei visto solo nelle cucine dei ristoranti, il lavaggio dei piatti, delle posate…e l’interminabile mondatura dei sacchi di verdura selvatica che mio padre andava a raccogliere per la cena.; la pasta in casa tutti i giorni, il pane una volta la settimana, e quando non era più tanto fresco, bollito e condito con la salsa. Tra tutto il negativo che mi schiacciava in famiglia, almeno di quei piatti conservo un bel ricordo.
La mia fuga era avvenuta a febbraio, la camera fu ultimata ad aprile-maggio, a giugno ripresi il treno per Torino e di nuovo all’insaputa di mio padre. Io nell’intervallo tra la prima fuga e questa, ero andato in depressione. Non avevo appetito e dimagrivo a vista d’occhio. Per rimediare, il dottor Barnabà, che ricordo con altissimo sentimento di stima e se esiste il paradiso non può che essere là, consigliò di andare al macello a bere il sangue di bue. Faceva schifo ma mi rimise in sesto alla grande. Ripresi forza e vigore che associati alla mia alta statura componeva un risultato di tutto rispetto per non dire prestante.
Stavolta, però, all’arrivo a Torino, non trovai nessun carabiniere ed io in segno di gratitudine, telefonai a casa. “Allura! ch’ama far?- dissi a mio padre- “S vossia m fa pgghiar nautra vota, iu scapp nautra vota, perciò sa m lassa tranquill… Ch’a ir e vnir di Torino? Iu o pais nan ci tuorn cchiù, chiuttust m bii sutta u tren”. Mio padre non mi diede la benedizione ma almeno comprese, una volta per sempre, che ero stanco di essere controllato, stanco delle liti, delle botte educative e di lavori che non mi rendevano niente.
A Torino non ero venuto solo per l’amico di mio cognato ma perché vi stava scoppiando l’era industriale. Con l’indirizzo in mano, presi un pullman che mi portò a destinazione ma, sorte avversa, l’amico non abitava più là. Per un attimo rimasi come impietrito, poi la signora che abitava in quell’appartamento mi disse che potevo chiedere da dormire in una specie di cascina poco distante che da come avanzava il cemento, si intuiva che fine avrebbe fatto tra qualche anno.
Davanti al cancello un cartello: ”Non si affitta a meridionali”. Sinceramente non capii la
parola meridionali, ma come facevo in paese, non me ne curai. Guardai alla carrapipana, senza vedere, ignorai ciò che per me era astratto: lo scritto. Se mi fosse apparso il padrone e me l’avesse detto in parole forse avrei dato un qualche significato, ma le parole scritte proprio non potevo considerarle. Con la sfrontatezza tipica dei ragazzi come me, (non ne faccio mistero) suonai il campanello, chiesi di avere una camera e mi fu accordata (dopo mi domandai che significato avesse quel cartello e dunque avevo avuto la fortuna dell’incosciente…o dell’innocente!).
Devo confessare che avuta la camera, e superato la botta per non aver trovato l’”amico”, da un lato mi sentivo sollevato, dall’altro fece capolino l’angoscia di non sapere dove andare, non conoscere neanche una pietra, e il senso di una libertà così sconfinata da lasciarmi disarmato. Non avevo più un nemico da combattere e questo mi creava un vuoto senza fondo: una voragine. Avevo solo diciassette anni ed ero davanti solo a me stesso e senza un barlume di riferimento. L’unico punto di forza, il mio libretto di lavoro in tasca.
Il mattino seguente andai in giro a cercare cantieri edili con le gru in funzione. Ce n’erano a centinaia, soprattutto nei pressi della Fiat che poi era la zona in cui abitava l’amico di mio cognato prima di trasferirsi. Mi presentai ad un capocantiere, dissi che sapevo lavorare (ed era vero) e lui mi mise alla prova subito. Non dimenticherò mai la cortesia che poi scoprii appartenere al DNA dei piemontesi. Ho detto cortesia, fredda e misurata cortesia: ben lontana dall’affetto, ma per adesso gradivo.
La sera mi chiese di tornare anche l’indomani; una settimana dopo avevo un contratto
regolare in tasca. L’unica perplessità era per me l’orario. Si finiva troppo presto, alle cinque, che a giugno era ancora mezzogiorno. Mi restava troppo tempo da non sapere come consumare, ma non ero tipo da sgomentarmi per così poco. Trovai il booling e il cinema del quartiere e superai il problema. Così iniziai qualche amicizia, vera, con altri meridionali.
L’illusione di trovare amicizie anche con i compagni di lavoro settentrionali, svanì subito
dopo aver osservato come mi osservavano. Il fatto che io rendessi il doppio o quasi, di loro, me li rese ostili e offensivi: “piciu” mi ripetevano più volte e quando ci si riuniva per il pranzo, appena io entravo loro uscivano. Insomma mi evitavano. Un giorno, dopo l’ennesimo insulto, come ero abituato in paese, feci a botte e ne spedii uno all’ospedale. Il capocantiere, al quale piacevo proprio per quello che dispiaceva agli altri operai, prese le mie difese e da allora in poi le cose si sistemarono. Per affrancarmi con questi del nord sarebbero passati alcuni anni, ma per l’amicizia come noi la intendiamo, proprio non c’è storia. In compenso non si deve rendere conto e non si deve dare spiegazioni per ogni azione che si compie. E non è poco!
Che non mi pesasse la solitudine, il non avere un viso conosciuto con cui scambiare una
parola, sarebbe una bugia, ma la mia forza era tutta nell’orgoglio e nel mio carattere indurito; il paese ormai non lo avrei più cercato e non perché non lo amassi, tutt’altro! senza mio padre ci sarei stato da Dio. Se non avessi ingranato a Torino, sarei andato a Milano, a Genova, dappertutto, purché in Italia.
Nel lavoro davo il meglio. Adriano, il capocantiere, cominciò ad apprezzare la mia volontà e la mia efficienza tanto che sentita la mia preoccupazione per l’imminente chiusura d’agosto per ferie (ferie? che vordì?) durante il quale non avrei saputo cosa fare, mi propose di andare a lavorare a Nichelino nella villa che si stava costruendo: niente, per me, poteva essere più gradito.
Adriano non mancava di manifestare lo sbalordimento del mio rendimento: in un mese di lavoro completai tutti i muri di tamponamento esterno e tutte le pareti divisorie interni. Un vero primato. Adriano mi confessò che non credeva ai suoi occhi! Un altro operaio, mi disse, avrebbe impiegato tre mesi.
Dopo qualche anno mi suggerì di fare il cottimista. Detto fatto, assunsi degli operai che
addestrai nella costruzione di muri e pareti. Ero imbattibile. Così cominciò la mia scalata nel mondo dell’edilizia torinese. Lavoravo a cottimo per le grandi imprese mentre sabato e domenica avevo sempre i lavoretti da fare per i privati.
Anno ’69: tornai in paese da vincitore, a dimostrare che ciò di cui avevo bisogno era la
libertà, l’autonomia del mio tempo, del mio denaro e della mia vita. Forse il difetto stava tutto nella precocità di volerli raggiungere. Mio padre, con mia grande meraviglia, venne a prendermi fino a Catania e alla domanda “ma perché è venuto fino qua? (gli davo il vossia) Non c’era bisogno!”, rispose quasi imbarazzato: “ma così! dato che c’era la bella giornata…” In quell’istante sentii la famosa voce del sangue che fece vibrare una corda con un’intensità da togliere a entrambi la forza per ricacciare indietro le lacrime. Fu un momento inaspettato e per questo memorabile. Mio padre era alla fine un pezzo di pane e perciò facile alle istigazioni esterne e man mano che passava il tempo, mi convincevo sempre più che lontano da influenze ambientali il nostro rapporto avrebbe avuto altri sviluppi. Trascorsi un periodo di vacanza circondato da attenzioni da parte di tutti, persino dei vicini di casa. Portai un po’ di soldi a mia madre e ai miei fratelli e sorelle, ritrovai una famiglia e l’affetto che fino ad allora non avevo ancora conosciuto.
Dunque guadagnavo bene e potevo permettermi di vivere in una pensione dove oltre a
dormire e mangiare, curavano il mio bucato. Inoltre potevo portare qualche compagnia. Stavo parecchio bene e la cosa era estremamente esaltante. Nel Natale del ’72 giunsi in paese in auto, potevo trasmettere l’immagine di cu nesci rinesci e nel mio caso era davvero accaduto. Per i miei genitori, simile ad un operazione di candeggio, da pecora nera mi ero trasformato in una bianca.
In quella vacanza, per puro caso conobbi una ragazza a Enna che fece nascere qualcosa di sconosciuto: la voglia di mettere radici e costruire una famiglia. Nel 73, durante la chiusura di agosto dei cantieri, la sposai. Avevo ventitré anni.
Anche se il lavoro non mancava, io ne cercavo di altri. Feci un corso serale di un anno per il patentino da fuochista, presi l’appalto per il controllo e la manutenzione delle caldaie in un ente statale e in altri condomini; i controlli li facevo la sera dopo il cantiere e anche di sabato e domenica. Un’entrata sicura di medio stipendio. Dopo ne frequentai un altro per leggere i complicati progetti degli ingegneri, e dopo ancora tentai di frequentarne un altro per diventare capomastro abilitato: peccato che il corso durasse sei anni e mia moglie cominciasse a dare segni di esaurimento. In verità anch’io cominciavo a esaurire le mie energie e almeno a quello ci rinunciai. Inoltre non ero più un ragazzino.
Nel ’76, anno dell’era IVA fui costretto ad aprire un’impresa individuale ma intanto i miei
lavori erano sempre più grandi e impegnativi: entrai in una cooperativa edilizia che mi assicurò l’appalto di due condomini alle porte di Torino, dove attualmente vivo in uno degli appartamenti. Gli appalti che la cooperativa riusciva a prendere li assegnava a me in quanto socio e in quanto puntuale nelle consegne e scrupoloso nell’esecuzione. Non è un vanto se affermo che mi inseguivano.
Quando le cose si mettono su un certo piano sei costretto a tirare al massimo. Io, che per il lavoro ho una vera predilezione, non mi lasciavo scappare le occasioni per osservare gli impianti idraulici, quelli elettrici e quelli di riscaldamento. Dove non capivo chiedevo e dove non chiedevo capivo.
Per non farla lunga finii col prendere i lavori “a corpo” nel senso che eseguivo dalla a alla zeta tutto il prodotto con una squadra di 15 operai e sarebbero potuti diventare anche di più se non fosse scattata la categoria da artigiano a industriale. Ma il troppo stroppia e mi sono dato un limite. Il guadagno era sufficiente per me, per loro, e per la stessa cooperativa, di cui facevo parte.
Ho avuto dei momenti brutti dovuti ad un infortunio e ad un incidente, ma non ho mai
contato su nessuno se non nelle mie forze e nel mio amore verso il lavoro che è sicuramente quello che mi ha ricambiato con assiduità e generosità.
Una cosa devo precisare: i miei operai non hanno mai bussato alla porta per ricevere la paga, piuttosto sarei rimasto asciutto io. Ho avuto molto rispetto e ricevuto rispetto. Non ho mai tenuto, nemmeno per un giorno, un operaio in nero e non ho mai accettato facili guadagni difficili da gestire. Inoltre, non ho mai temuto la finanza o un controllo fiscale perché le mie tasse le ho pagate sempre con puntualità e oggi grazie a ciò potrei godere di una cospicua pensione se non avessi ancora la maledetta voglia di cantiere che mi fa alzare presto e tornare tardi. La mia passione per il cantiere è stata più forte della stanchezza e dei sacrifici, forse perché è stata la mia vera ragione di vita. Sento che finché avrò un filo di resistenza sarò nei luoghi dove c’è un’impalcatura, o in casa dei numerosi clienti fissi che mi hanno dato le chiavi di casa per eseguire riparazioni o ristrutturazioni anche in loro assenza.
Il denaro guadagnato me lo sono goduto, ho potuto concedermi belle auto e fare regali
importanti a mia moglie. L’appartamento me lo sono rifinito con materiali di mia scelta, l’ho
arredato con mobili sontuosi, tappeti e oggetti di prestigio, ogni angolo è stato curato nei dettagli e quando rientro posso sentirmi appagato dal risultato. Mia moglie, non essendoci necessità, non ha mai lavorato e poi è quella che da sola ha cresciuto i nostri due figli ormai grandi. Uno laureato e uno diplomato. Abbiamo un tenore di vita medio alto, non devo niente a nessuno se non a me stesso e chissà forse alla severità di mio padre che inconsapevolmente ha fatto di me un ragazzo vissuto e cresciuto prima del tempo.
Penso che in una famiglia/bambagia le mie esperienze sarebbero state più leggere e più facili e forse non avrei avuto il coraggio di fare ciò che ho fatto per difendere prima di tutto la mia individualità nonché la libertà di gestire la mia vita secondo le mie aspirazioni e inclinazioni, ma Valguarnera resta nella memoria come la croce e delizia delle mia infanzia e della mia turbolenta adolescenza.