Era bella Paolina, col vestito rosa a pieghe e il cappello di paglia in tinta, che passeggiava con la sorella lungo via Garibaldi che pullulava di gente per la festa di San Cristofero. Quel vestito glielo aveva cucito la sua zia Paola Blanca, sarta rinomata in paese, e vi aveva messo tanta cura perché, proprio sua nipote, quel giorno, non doveva sfigurare. E infatti non sfigurava, Paolina, coi capelli neri raccolti a treccia sotto il cappello, la pelle ambrata di un colore naturale che pareva abbronzata, gli occhi vivi e vigili., attenti a qualcuno che la guardasse in modo strano. Perché Paolina si sapeva fare rispettare, e guai a chi le rivolgesse una parola che non era di pura cortesia.
Paolina era la più piccola di quattro sorelle e, come tale, le aveva viste maritare tutte. Prima Tina, la grande, che dopo pochi anni era dovuta partire per l’America. Poi Maria, anche lei finita in Argentina, infine Filippina che, dopo i primi anni in paese, anche lei era dovuta partire. Però era rimasta in Sicilia, così, nelle feste, veniva a trovarla e si potevano vedere. L’unico fratello che aveva, Domenico, era morto in un banale incidente mentre andava a scuola, a Piazza Armerina, con la bicicletta. E così Paolina, ultima di ben quattro sorelle, a Valguarnera era rimasta da sola, a badar con il padre che, presto rimasto vedovo, aveva dovuto risposarsi.
Paolina era una bella ragazza che non dava facilmente il suo cuore a nessuno e, quando fu l’ora di maritarsi, le cercarono un bravo giovane che l’avrebbe rispettata e trattata come una regina.
Se la portò nella casa paterna dove, ahimè, avrebbe dovuto badar con la suocera. Ma Paolina ci sapeva fare e, senza mai giungere a screzi tremendi, riuscì nel suo intento di tenere unita la sua nuova e numerosa famiglia: tutti, nella famiglia Accorso, la consideravano una confidente e un punto di riferimento per ogni problema che si presentasse a ciascuno dei nuovi parenti.
Quel matrimonio portò due splendidi maschietti, “ du faidduna”, come diceva lei. Ma ben presto quella gioia si trasformò in dolore, perché i pargoli tanto amati furono colpiti entrambi dalla stessa malattia: la poliomielite.
Ma Paolina non si rassegnava, ed eccola a correre di qua e di là dai migliori medici del tempo e arrivò persino a Reggio Calabria, dove c’era l’unico centro in grado di eseguire quelle delicate operazioni. Giungeva in treno fino a Messina, poi si trasferiva sul traghetto, quindi la possiamo immaginare su un calesse dai neri sedili di pelle, guidato da un cavallo che trotterellando si inerpicava per la salita , ripida e tortuosa che conduceva alla collinetta dove era situato l’Ospedale. Ella attendeva in una pensione vicina e spesso questi viaggi li faceva da sola, perché il marito non poteva trascurare il lavoro, quel lavoro che gli permetteva di andare avanti e affrontare tutte quelle difficoltà, quel lavoro al quale lei contribuiva non poco, partecipando attivamente alla gestione diretta del laboratorio di sgusciatura mandorle.
Si alzava la mattina alle quattro, perché a quell’ora era fissato l’appuntamento con le operaie, gente che lavorava per un tozzo di pane.
Ci sapeva fare con le operaie: le stimolava al lavoro e non lesinava di aiutarle quando avevano bisogno. Qualcuna era costretta a portare con sè i figli piccoli che dovevano essere allattati e Paolina era comprensiva riguardo a queste situazioni. Questi figli spesso, crescendo, andavano anch’essi a lavorare con le loro madri e stavano contenti, aspettando il momento delle caramelle quando Paolina, al grido di “ Avant carùs “, gettava in aria una manciata di caramelle e loro tutti lì a fare a gara a chi ne raccoglieva di più.
Spesso questi ragazzi, diventati ormai grandi, andavano a trovare Paolina per confidarle i loro problemi e lei non rifiutava mai un consiglio, una parola buona, un gesto di incoraggiamento.
Alle sette e trenta, Paolina saliva in casa per preparare la colazione ai figli e mandarli a scuola. Ci teneva lei per la scuola! Diceva: “Se i miei figli sono stati sfortunati per la salute, di certo non lo saranno per la loro intelligenza”. E infatti uno diventò uno stimato ingegnere e l’altro, che aveva preso il carattere della madre, punto di riferimento per tanti giovani in cerca di lavoro e di saggi consigli o semplicemente di compagnia.
All’una, Paolina saliva nuovamente per preparare il pranzo e in appena un’ora faceva tutto, riordinava la cucina, rifaceva i letti, puliva il bagno e preparava la cena, come e con quanta abilità lo facesse è un vero mistero! Alle due, di nuovo giù fino a sera.
Per fortuna, questo lavoro così massacrante durava da settembre a fine febbraio e in ogni caso, se doveva protrarsi ancora per qualche giorno, si doveva aver cura che tutto finisse entro il diciannove marzo, la festa di San Giuseppe.
Ella abitava infatti lungo la salita che conduceva alla chiesa del Santo e quel giorno tutto doveva essere pronto per la festa: i sfing cu mel, i sfing cu a ricotta, a pagnuccata, specialità gastronomiche che Paolina era bravissima a realizzare e che offriva volentieri a chi , inevitabilmente, si recasse da lei, o per vedere i mbracul, la sfilata dei cavalli, la processione della Sacra famiglia o, la sera, il fercolo del Santo. “ Na mia è a festa” amava sempre dire, ed era tradizione pranzare da lei per quel sacro giorno.
Quando non si lavorava con le mandorle, Paolina si dedicava al cucito, aveva infatti frequentato per lungo tempo il laboratorio di sartoria di sua zia Paola Blanca, da cui aveva preso anche il nome, ed era diventata una sarta provetta, abilità di cui si serviva per provvedere alle necessità di tutta la famiglia, compresi i pantaloni per i suoi figli, infatti, a quei tempi, era un po’ difficile trovarne di confezionati. Ma si dedicava anche ad attività più creative, come l’uncinetto e il ricamo.
Paolina era una donna “sperta”, che se la sapeva uscire in tutte le occasioni. Tanto era sperta che aveva pensato bene di volere a tutti i costi una figlia femmina, che la sostenesse, lei e il marito, durante la vecchiaia. Ma il marito, scottato dalle malattie che avevano colpito entrambi i figli, non ne volle assolutamente sapere. E questo fu il più grande, se non l’unico, rimpianto di Paolina, anche se questa mancanza fu compensata da due belle e brave nuore, ma, si sa, “ a figghia fimmna è a figghia fimmna”.
Ricordiamola così.
Paola Di Vita